Sì è tenuto ieri a Su Tzirculu, in Via Molise 58 a Cagliari, l’incontro “Diritti negati e autodeterminazione del popolo Saharawi”, organizzato da Amnesty International circoscrizione Sardegna. Una conversazione aperta con Mohamed Dihani, difensore dei diritti umani e attivista per i diritti e l’autodeterminazione del popolo Saharawi; Silvia Benussi, docente di storia delle istituzioni politica dell’Università di Cagliari; Nicola Melis, docente di storia e istituzioni dell’Africa dell’Università di Cagliari.
La situazione del popolo Saharawi e la lotta per l’autodeterminazione
Il popolo Saharawi vive da più di quarant’anni nei campi profughi del Sahara Occidentale, considerata ultima colonia africana e conosciuta come ex Sahara spagnolo, terra ricca di risorse naturali (soprattutto fosfato di buona qualità, utilizzato anche dall’Europa) e nei campi profughi in Algeria. Nicola Melis, docente di storia e istituzioni dell’Africa dell’Università di Cagliari, ha spiegato come si tratti di un “pasticcio non risolto che discende dalla storia dell’imperialismo e del colonialismo europeo. Una storia che si trascina numerose incongruenze, soprattutto della Spagna e degli imperi coloniali iberici che, rispetto agli altri, avevano deciso di continuare ad avere imperi coloniali da controllare. Di tutte queste scelte scellerate chi ne sta subendo le conseguenze è proprio il popolo Saharawi”.
Nel 1960, con la risoluzione n.1514, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosce il diritto all’indipendenza per le popolazioni dei paesi colonizzati e chiede alle potenze coloniali (Spagna) di decolonizzare i territori e mettere fine all’occupazione.
Esattamente sei anni dopo l’Onu richiede alla Spagna di “procedere all’organizzazione di un referendum, da realizzarsi sotto gli auspici delle Nazioni Unite per permettere alla popolazione autoctona del territorio di esercitare liberamente il suo diritto di autodeterminazione”.
Il corso della storia di questo popolo cambia nel 1975 con la firma degli Accordi di Madrid: la Spagna deve abbandonare il Sahara Occidentale e cedere i territori al Marocco e alla Mauritania, paesi di confine. “Quello che si chiamava Sahara Spagnolo finisce dalla padella alla brace – afferma il prof. Melis – perché si passa da un colonialismo europeo a uno regionale”. Il Marocco inizia, dunque, una vera e propria invasione del territorio con l’intento di vanificare lo svolgersi del referendum per l’autodeterminazione del popolo Saharawi. “A che titolo il Marocco pretende che quel territorio sia suo?” – continua il prof. Melis.
La Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)
Così, l’anno seguente, la resistenza armata Fronte Polisario proclama formalmente la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD) che, in seguito, diventerà membro dell’Unità Africana e sarà riconosciuta da paesi di tutto il mondo.
La Mauritania decide di abbandonare il conflitto nel 1979 con la firma di un accordo separato di pace e riconoscendo, di fatto, la RASD ma il popolo Saharawi vive, comunque, diviso: parte nei campi di rifugiati in Algeria e parte nel Sahara Occidentale sotto il dominio del Marocco.
Si crea, così, una situazione di stallo che va avanti da oltre quarant’anni: viene sottoscritto un Piano di Pace approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e, nel 1991, Marocco e Fronte Polisario sottoscrivono un accordo per un cessate il fuoco e per lo svolgimento di un referendum di autodeterminazione. Nel frattempo viene avviata la Missione MINURSO (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum in Sahara Occidentale) con l’incarico di organizzare il referendum che, però, non si terrà mai. “Il 31 ottobre scorso scadeva il termine della MINURSO, perché entro quella data si sarebbe dovuto svolgere il referendum ma già nel decennio precedente era stata rinnovata la missione e si iniziava a non parlarne più. Anche la comunità internazionale ha mantenuto posizioni ambigue. Il diritto internazionale oscilla perché il Marocco riesce ad essere molto influente” – dichiara il prof. Melis.
La storia di Mohamed Dihani
Mohamed Dihani, classe ’86, nasce nel Sahara Occidentale e ha vissuto nella parte occupata: “non pensavo di essere del Sahara Occidentale, io pensavo di essere marocchino e non avevo capito la mia situazione fino al 1996, quando ci fu il mio primo arresto all’età di 9 anni. Ero a scuola e sono uscito per tornare a casa quando mi sono trovato in mezzo ad una manifestazione dove le persone protestavano contro il re del Marocco. Quando la polizia è intervenuta sono stato il primo ad essere arrestato e ho passato giorni rinchiuso in una caserma. Non ho compreso la situazione finché i miei genitori non sono riusciti a liberarmi. Tante persone sono sparite, tanti bambini sono stati rapiti e non sono mai più tornati a casa.
Dopo il rilascio tornai a casa avevo sempre paura ma i miei genitori avevano così iniziato a spiegarmi la situazione: mi avevano spiegato che ero un Saharawi, che la mia terra era stata occupata militarmente e che non si poteva parlare della questione. Fino al 2005 non si poteva dire la parola Saharawi, qualsiasi situazione legata al nostro popolo non potevi dirla”.
Una situazione che può essere assimilata a quella palestinese per il livello di distruzione di tutti gli aspetti della vita delle persone colonizzate e per il “processo di condizionamento subito dai marocchini in relazione al Sahara Occidentale, i territori occupati, il muro, la repressione e i tabù concettuali” – come dichiara il prof Melis.
“Dal 1997 al 2001 sono stato arrestato numerose volte per il mio attivismo soprattutto in ambito scolastico; ho anche tentato di raggiungere le Canarie via mare ma non ci sono riuscito. È stata un’esperienza orribile, ho trascorso quattro giorni in alto mare. Mio padre ha capito che doveva portarmi via dal Sahara Occidentale e portarmi in Italia, dove lui viveva dal 1997”.
L’esperienza in Italia
“In Italia per la prima volta ho visto il cielo dopo le 20: noi abbiamo vissuto sempre con il coprifuoco attraverso la presenza costante di campi militari. In quel momento ho capito che il resto del mondo è diverso dal Sahara Occidentale”.
Dal 2002 al 2008 Mohamed ha continuato a fare attivismo soprattutto nei weekend, attraverso la distribuzione di volantini in lingua araba, perché ancora non parlava bene l’italiano. Ha sempre lavorato qui in Italia prima in una vigna, poi come lavapiatti e come cuoco in un ristorante. Ma anche in Italia non si ferma l’oppressione, soprattutto attraversi fermi arbitrari da parte delle forze dell’ordine.
“Nel 2008 quando rientro in Sahara Occidentale ha inizio la persecuzione: iniziano con il togliermi il passaporto e poi questo ha portato ad un rapimento durato 7 mesi in quella che viene definita la ‘Guantanamo dell’Africa’. Sono stato condannato ingiustamente a 10 anni per terrorismo.”
Mohamed Dihani è riuscito a dimostrare, attraverso numerose testimonianze, le torture e gli abusi subiti all’interno del carcere e solo grazie all’intervento di Amnesty International e al Consiglio delle Nazioni Unite, che ha pubblicato un rapporto sulle sue condizioni nel quale si chiedeva la scarcerazione immediata, è riuscito, dopo quattro anni di isolamento, ad uscire da questa terribile situazione.
Mohamed sente ancora pesanti su di sé gli effetti e i traumi di quanto ha vissuto: grazie ad Amnesty ha potuto intraprendere un percorso di cura con numerosi medici e psichiatri ed è riuscito, con il tempo, a tornare a vivere una condizione, almeno, di normalità.
Lo scorso 16 settembre il Tribunale Civile di Roma ha riconosciuto il diritto alla protezione internazionale per Mohamed Dihani. La sentenza ribalta la decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che nel maggio 2023 aveva rigettato la richiesta di protezione internazionale. Un percorso giudiziario che, ancora una volta, dimostra le difficoltà del diritto internazionale nel trovare soluzioni che abbiano un fondamento di umanità.
Una panoramica delle istituzioni spagnole: i diritti delle donne e il principio di autodeterminazione dei popoli
Silvia Benussi, docente di storia delle istituzioni politica dell’Università di Cagliari, ha voluto fare una panoramica delle istituzioni spagnole da una prospettiva femminista sulla vicenda del popolo Saharawi. La docente si è voluta soffermare, in particolare, sul PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo), sull’impegno che il partito aveva preso nei confronti della situazione del popolo Saharawi e delle promesse fatte che poi sono state completamente disattese, fino ad arrivare alla lettera del governo Sanchez del marzo 2022 consegnata al re del Marocco dove viene definita la proposta del Marocco del 2007, una proposta assolutamente limitata rispetto all’autodeterminazione del popolo Saharawi, “la più credibile e la più realista”.
Uno sbilanciamento netto a favore della posizione del Marocco che cancella completamente gli impegni presi dalla Spagna nel corso di tutti questi anni. Non tardano ad arrivare le critiche.
“Lidia Falcòn, femminista marxista, grandissima oppositrice del regime di Franco, afferma, in relazione alla lettera del marzo 2022, come non ha mai vissuto un momento di tanta vergogna nella sua vita. Il suo discorso ricollega il tema dei diritti delle donne e dei diritti delle popolazioni oppresse da un regime dittatoriale con il principio di autodeterminazione dei popoli. Anche Najat El Hacmi, scrittrice marocchina naturalizzata spagnola, tiene una rubrica ogni venerdì su El Pais dove ha parlato più volte a favore del popolo Saharawi e ha spesso criticato la posizione del governo spagnolo ma anche degli altri partiti di sinistra che si riempiono la bocca del concetto di decolonizzazione ma che in realtà ignorano i casi più recenti”. Una sinistra post moderna che ha rinunciato a quei valori di cui, solo a parole, si fa portatrice.
Una serata importante e necessaria di dialogo su politica e diritti per ricordarci che è necessario tenere sempre alta l’attenzione sul rispetto dei diritti civili e non bisogna mai smettere di lottare.
Elena Elisa Campanella
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