Il Cigno nero può tornare e non ci sarà un altro Cavaliere Bianco. Chiudevo così alla pagina 516 il mio Diario italiano della Grande Crisi (Il Cigno nero e il Cavaliere bianco, edizioni La Nave di Teseo).
Ricordo l’emozione alla prima al teatro Menotti a Milano – dove abbiamo messo in scena in cinque atti la pièce tratta dal libro – quando ritornando sul palco per un epilogo improvvisato, mi venne spontaneo di dire più o meno così: un altro cigno nero possiamo fabbricarlo solo noi, con le nostre teste e con le nostre mani, ma ricordatevi tutti che non ci sarà un altro Cavaliere Bianco.
Come dire: ci è andata bene una volta, mettetevi bene in testa che non ci sarà una seconda volta. Il Cavaliere Bianco di cui parlavo è un grande italiano. Si chiama Mario Draghi e è l’uomo che ha firmato l’atto risolutore della Grande Crisi. Ha salvato in tempi di guerra l’euro e il lavoro possibile. Ha salvato l’Europa.
Di conseguenza ha salvato l’Italia e la Spagna. Tre parole uscite dalla sua testa (whatever it takes, qualunque cosa serve) che sono lui: l’analisi empirica, l’intelligenza politica, il dono della sintesi. Quelle tre parole non sono nel testo consegnato dai ghostwriter alla conferenza di Londra del 26 luglio 2012, nessuno dei colleghi banchieri centrali ne è informato.
Esprimono il coraggio dell’uomo. Rimediano all’errore fatale del suo predecessore, il francese Trichet. Inchiodano la politica europea alle sue responsabilità e fanno di lui paradossalmente insieme il custode massimo dell’indipendenza monetaria e il tutore più rispettato della sovranità europea.