Il gruppo composto da due chitarristi (Stefano Piermarini e Riccardo Biscetti) e da un tastierista-cantante (Simone Micheli) decide di rinascere nel 2018. Si, perché per gli Hike la musica è un amore di vecchia data.
Fagocitata da un ritorno di fiamma, d’ora in poi, questa band farà certamente parlare di sé. Hike_01 ci regala una buona tecnica vocale, un rock rinforzato da un’ottima ritmicità soprattutto in Red Eyed, per poi passare a ritmi più ordinati e alle note dolci del pianoforte in Good Speech.
Per i tre brani la band ha avuto la piacevole collaborazione di artisti musicali: Enrico Brunori, Angelo Nobili e Stefano Rossi e di artisti visivi come SegmentoMultimedia, Gemma e Ruben Gandus).
Il progetto musicale del trio mira, infatti, a coinvolgere artisti professionisti dell’arte visiva e musicale per arrivare all’animo dell’ascoltatore, amplificando le sue percezioni emozionali con una musica da vedere oltre che ascoltare. Pertanto Hike_01 ci conquista attraverso brani da vivere, che orbitano attorno ai sentimenti e alle debolezze umane. Un EP diretto e senza fronzoli che si rivela un’ottima premessa per quel che verrà.
Benvenuti ragazzi, sono felice di poter parlare con voi.
Un trio italiano che canta in inglese, è quasi scontato che vi chieda: perché questa scelta?
Simone: Si tratta di una scelta stilistica, legata in qualche modo al genere musicale a cui facciamo capo. Questo non esclude tuttavia che un giorno potremmo decidere di scrivere testi in italiano, magari potrebbe anche uscirne fuori qualcosa di interessante, chissà!?
L’aspetto visuale è essenziale nella vostra musica, l’immagine che accompagna i contenuti riesce a coinvolgere l’ascoltatore che diventa anche spettatore. Dunque, musica e immagine che si potenziano reciprocamente, quale messaggio vorreste far arrivare con la “musica per gli occhi”?
Simone: Evocare nell’ascoltatore delle immagini è in fondo il potere di cui la musica si fa forte. In un certo senso, la possibilità di accompagnare i nostri brani con delle illustrazioni concretizza l’astrazione della musica ed è interessante vedere tramite gli occhi di altri artisti come le nostre note riescano ad assumere svariate forme, un po’ come suggerisce anche il misticismo dietro l’affascinante studio della cimatica di Hans Jenny.
Inoltre, il fatto che la musica sia un bene fruibile solamente tramite il senso dell’udito è oramai un falso assodato: essa infatti necessita di una partecipazione attiva della mente dell’ascoltatore, che deve essere aperto all’utilizzo di tutti i suoi canali sensoriali. L’aspetto visivo è a questo punto una componente di supporto fondamentale per il sonoro e lo stesso discorso vale a parti inverse.
Riccardo: Da amanti di arte in tutte le sue forme, vogliamo che queste siano messe in gioco quando lavoriamo. Ovviamente questo sarà un percorso che si svilupperà nel tempo, siamo aperti a ogni idea e novità, il nostro prossimo passo sarà infatti realizzare un videoclip vero e proprio, nel nostro stile!
Good Speech, Red-Eyed, Clean, ogni brano del vostro EP tratta un tema capace di sfiorare la sfera emozionale di ognuno di noi, lasciando un segno che rimane nel tempo. Red-Eyed è il brano che mi ha colpito più di tutti e racconta la rabbia che rende ciechi, la paura di provare emozioni, l’uccisione di un padre e l’infelicità che porta a desiderare la morte. Brano forte e profondo, ma cosa ispira una canzone come questa?
Simone: Anzitutto, grazie molte per la bellissima premessa. Per chi fa musica (e arte in generale) sapere che le proprie opere riescano ad arrivare a persone che poi le fanno proprie è una delle soddisfazioni più grandi.
Tornando alla domanda, l’ispirazione per il testo di Red-Eyed mi è venuta guardando la prima stagione di una serie americana chiamata Mindhunter, che tratta di una metodologia sperimentale (di fine anni ‘70) di profilazione dei serial killer, basata sullo studio della psicologia di famosi pluriomicidi. Diciamo che ho provato una certa empatia nei loro confronti e sono rimasto toccato dalle storie personali raccontate da alcuni, un po’ anche per il modo in cui queste persone sono state incattivite dal distacco sociale subito. È dunque più un tentativo di avvicinamento alla loro sofferenza interiore, alla loro abiezione. Non vuole certo essere un encomio o un elogio, ma un tentativo di comprensione della loro avversione alla vita.
Pensate che la musica possa ancora influenzare le giovani menti e in qualche modo ispirare la loro personalità?
Simone: È una delle tante ambizioni a cui aspirano gli artisti suppongo, sperando che il proprio contributo sia una sorta di “lascito” positivo per gli altri esseri umani, non solo per le giovani menti. Detta così sembra un’aspirazione piuttosto pretenziosa, ma la musica (qualunque essa sia) può dare spunti di riflessione, tendere una mano, suggerire risposte a domande che ci attanagliano, fornire aiuto, vie di fuga, punti di ritrovo, creare mondi.
Riccardo: Per me lo ha sempre fatto! Ha sempre influenzato le menti giovani. Ovviamente, cambiando i tempi cambiano i generi di riferimento. Oggi vediamo ragazzini che non conoscono null’altro al di fuori della Trap, o di tutto ciò che deriva da essa. Per molti musicisti questo rappresenta un motivo di frustrazione e rabbia, ma io personalmente lo trovo un atteggiamento ordinario.
É normale che una società come quella odierna (maniaca del controllo e squisitamente capitalistica) promulghi direttamente – o anche spontaneamente – modelli di vuotezza comportamentale, ignoranza e nevrosi. È un modello di marketing come altri. Io dico sempre che la musica oggi sta subendo una forte inflazione: è ascoltabile dappertutto e soprattutto, chiunque la può produrre (anche noi…), dunque forse una delle dirette conseguenze è che il suo valore intrinseco si sia abbassato e con essa la nostra capacità di assimilarla. Nonostante tutto non ha mai smesso di influenzare. La trap, il blues, l’hip hop, il grindcore, o il genere che proponiamo noi; come dice Simone, speriamo di poter influenzare le persone in modo positivo, se ne avremo modo.
Il vostro è un trio, e necessariamente dovete viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda per creare musica che vale, ci sono stati dei momenti in cui non vi siete trovati d’accordo nella realizzazione di un brano?
Simone: Direi che questi momenti sono all’ordine del giorno nelle nostre sessioni di composizione. Scherzi a parte, sono anni che suoniamo insieme e condividiamo molti aspetti delle nostre vite, al di fuori del pensiero musicale. Chiunque suoni in un gruppo sa quanto questo sia importante e caratterizzante per le proprie opere. Capita spesso di trovare ovviamente divergenze riguardanti la direzione che ognuno di noi vorrebbe dare a un brano, ma la cosa positiva è che alla fine riusciamo sempre a trovare dei punti di raccordo che siano congeniali alle idee che propone ciascuno di noi e non dei semplici compromessi.
Ci sono artisti a cui avete fatto riferimento nella vostra crescita musicale?
Simone: Assolutamente sì! Artisti ai quali, per altro, tuttora ci troviamo spesso a far riferimento. Primi fra tutti Periphery, TesseracT, Muse, Dream Theater, A Perfect Circle, Tool e Porcupine Tree.
Riccardo: A me piacciono molto i Death Cab for Cutie, i Nine Inch Nails e apprezzo moltissimo Devin Townsend.
Stefano: Posso dire un’altra volta Porcupine Tree? Oltre loro anche Protest the Hero, Haken (questi ultimi soprattutto per l’album “The Mountain”) e perché no!? I Meshuggah.
Pensate che in futuro vi sentiremo davvero cantare anche in italiano?
Simone: Come anticipato nella prima domanda, potrebbe darsi. Non escludiamo nulla. Teniamo solo a precisare, come già accaduto in passato, che semmai questo dovesse accadere sarà per pura scelta ed esigenza stilistica personale.
Riccardo: Non è vero, potremmo farlo tranquillamente anche per un contratto milionario.
Simone: …
Quando avete capito che la musica sarebbe stata parte integrante della vostra vita?
Simone: Sin da quando abbiamo iniziato a muovere i primi passi nel mondo della musica ai tempi delle superiori. È una passione che già da appena nata sapevamo non sarebbe mai morta. A conti fatti, oramai sono già più di dieci anni che suoniamo e fino ad ora non c’è mai stato un ripensamento. Le passioni nella vita sono importanti, sono un albero motore, un appiglio necessario, una via sicura da percorrere. Abbandonarle vorrebbe dire abbandonare se stessi in un turbine di eventi confusionari, senza via di scampo.
Riccardo: Personalmente non ho mai avuto dubbi, fin dall’acquisto della mia prima chitarra, a sedici anni. Ovviamente me ne sono pentito più e più volte. Avrei potuto studiare ingegneria aerospaziale, ma amo la musica e so bene che non è un percorso facile, per cui lo affronto quantomeno con il cuore in pace.
Stefano: La colpa è tutta imputabile ai due sopra e ai nostri primi fanciulleschi tentativi di scrivere brani. Dopo aver provato altre strade (in maniera completamente fallimentare), mi sono reso conto che il richiamo dello strumento era decisamente troppo forte.
Tenere a battesimo un nuovo progetto non è semplice, posso chiedervi come siete arrivati a formare gli Hike e cosa vi contraddistingue rispetto ad altre band?
Simone: Il percorso che ha portato alla nascita dell’attuale progetto è stato abbastanza frastagliato, nel senso che ci siamo ritrovati a dover e voler cambiare formazione e stile più di una volta, fino ad arrivare alla situazione attuale, assodata, completa, in continua evoluzione certo, ma completa.
Trovare delle peculiarità in noi è forse la cosa che più ci rimane difficile, più che altro perché difficile è mantenersi in una dimensione oggettiva quando ci si descrive. Voglio dire, cerchiamo di fare quello che facciamo con la più totale naturalezza e senza cercare di imitare qualcun altro, ma senza porci troppi problemi sul dover sembrare diversi dagli altri. Poi spetta un po’ anche a chi ci ascolta trovare delle particolarità in noi da apprezzare. Vorremmo sentirlo un po’ anche da voi, da chi legge e chi ci segue, sapere se in quello che ascoltate e vedete percepite una sensazione di nuovo e di fresco.
Immaginate di poter vedere un vostro concerto con gli occhi di un fan, cosa pensereste di ognuno di voi?
Simone: È una domanda complicata, più che altro per via del fatto che l’idea che abbiamo sul come impostare le nostre esibizioni dal vivo è basata sul cercare di direzionare l’attenzione dell’ascoltatore (e spettatore) esclusivamente sull’aspetto musicale e visivo del live, cercando quindi di distaccare e distogliere, entro certi limiti, la sua concentrazione dalla mera presenza scenica. Ecco, forse questa potrebbe essere una peculiarità!
Quando la musica può essere definita “arte”?
Simone: Credo possa definirsi tale quando i suoni che la compongono riescono a evocare immagini, ricordi e dunque sensazioni nell’ascoltatore. La contaminazione sensoriale è un po’ l’anello di congiunzione tra le varie arti, essa rappresenta le fondamenta del pensiero e del discorso artistico in generale e credo che riuscire in questo intento sia ciò che eleva il processo musicale a una condizione artistica. Ovviamente, c’è anche bisogno da parte dell’ascoltatore che vi sia una certa predisposizione a questo metodo di fruizione.
Poi c’è il discorso della progettazione. L’arte non è solo casualità. È struttura, pensiero, ingegno e messa a punto di idee, dal suo concepimento fino alla sua finalizzazione.
La mancanza di complessità (non parlo di virtuosismi o ridondanti barocchismi, ma dell’attenzione alla progettualità) è in questo senso un fattore chiave, che separa l’arte musicale dalla “canzonetta”.
Riccardo: La musica è creazione, la creazione è arte. Chi crea musica per dieci o un milione di persone lo fa con arte. Un falegname può utilizzare un tronco d’albero per scolpire una Nike di Samotracia o realizzare una sedia. Il valore intrinseco del brano, secondo me, è dentro il suo significato, nel come le persone lo assimileranno.
Stefano: Aggiungerei che tutta la musica è arte, anche quando questa non evoca emozioni nell’ascoltatore. L’artista stesso per altro, primo giudice delle sue composizioni, è e sarà sempre coinvolto emotivamente nelle sue canzoni.
Qualche anticipazione sui vostri progetti futuri? Cosa non dobbiamo aspettarci?
Simone: Come già anticipato in altre occasioni, stiamo lavorando alla realizzazione del nostro prossimo album. Ad oggi abbiamo quattro brani che stiamo finendo di arrangiare e per cui stiamo organizzando delle collaborazioni. Vorremmo abbracciare il pensiero artistico di quante più persone possibile, così da coinvolgere nella nostra musica tante menti con cui poter perseguire un fine comune: creare i nostri mondi.
Sicuramente quello che non c’è da aspettarsi è un pezzo trap.
Stefano: *Si copre il Rolex al polso…*
Riccardo: Direi che visto che non ci sono contratti milionari in vista, non dovete aspettarvi una canzone in italiano.
Grazie ragazzi per essere stati con noi, vi salutiamo augurandovi un ulteriore successo per il 2020 e la realizzazione di tutte le vostre aspettative.
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Sabrina Cau