“La nostra prima reazione di fronte all’affermazione di un altro è una valutazione o un giudizio, anziché uno sforzo di comprensione. Quando qualcuno esprime un sentimento o un atteggiamento o un opinione tendiamo subito a pensare ‘è ingiusto’, ‘è stupido’, ‘è anormale’, ‘è irragionevole’, ‘è scorretto’, ‘non è gentile’. Molto di rado ci permettiamo di ‘capire’ esattamente quale sia per lui il significato dell’affermazione”
Carl Rogers, Psicologo e PsicoterapeutaLa comunicazione non è semplice nel momento in cui non siamo disposti a comprendere l’altro, fare delle sue parole e delle sue esperienze un elemento di ricchezza. Accettare significa guardare all’altro come un prolungamento di noi stessi, lasciando da parte pregiudizi e giudizi dovuti ai condizionamenti, quanto accaduto in passato e quel che ci è stato insegnato, i nostri stessi genitori, vittime, a loro volta, dei condizionamenti dei loro.
La pace cercata ha bisogno d’essere desiderata in profondità e soddisfatta guardando a se stessi, mai all’altro. Il nostro specchio guarderà a noi allo stesso modo in cui noi guardiamo a noi stessi, in profondità. Cosa non accettiamo di noi stessi? Quali sono le parti in debolezza che ci fanno stare più male e come possiamo rimediare a quel che sono state le mancanze vissute in famiglia, nel parentado, nell’amicizia durante la nostra crescita e cosa vorremmo dire a tutte quelle persone che non hanno avuto modo, anche loro impossibilitate, di ascoltarci, ascoltare le nostre mancanze? Spesso sono cose che ci chiediamo sommessamente nel silenzio dei giorni che scorrono senza riuscire a soddisfare, riempire quel senso di vuoto che caratterizza quell’aspetto della nostra vita, una mancanza che nessuno è mai riuscito a colmare. Quanto più è profonda la ferita, tanto più sarà grande la rabbia, l’aggressività verso qualsiasi parola passi sopra. Da bambini abbiamo imparato bene a rispettare quelle leggi genitoriali che apparentemente ci difendevano ma, come una spada a doppio taglio, hanno finito per impedire al nostro cuore di spiccare il volo per inseguire i suoi veri sogni, quelli inconfessati, talvolta persino a quegli stessi amici con i quali ci aprivamo per un confronto d’interessi: troppo personali, troppo profondi e noi… troppo sensibili all’incomprensione, per finire alla negligenza delle parole, dei fatti di persone alle quali stavamo dando “fiducia“.
Il no è stato l’imperativo categorico per le persone inascoltate che non ha fatto altro che produrre altrettanta incomprensione ed altrettante persone da aiutare, innescando un circolo vizioso di sofferenza ed inutili drammi, basati sempre sul nulla. Quanti sono stati i Sì funzionali alla nostra crescita, quelli che per davvero ci hanno dato la possibilità di esprimere quel che realmente eravamo? Quanti sono stati i Veri Sì detti ai nostri figli e quanto abbiamo trasmesso loro di noi, proiettando i nostri desideri sulle loro aspirazioni ed aspettandoci il risultato migliore (per noi)? Cos’altro stiamo insegnando ai figli di quel che non abbiamo mai imparato ma che avremmo voluto imparare e quel che invece dovremmo disimparare, liberandoci per sempre dalle nostre paure?
Quali sono i dispiaceri e dolori pregressi dei nostri genitori che ci hanno trasmesso trasmettendoci il dolore stesso e il senso di mancanza che ci portiamo appresso e come possiamo fare per fare in modo che quelli che abbiamo avvertito come problemi possano essere rilasciati?
Il rilascio è fondamentale per vivere una vita al pieno delle nostre potenzialità, sapendo che ci sarà sempre qualcuno pronto ad ascoltarci, ascoltare la nostra verità e che il mondo non si ferma all’interno di quattro mura domestiche, ne a quel partner che fino a ieri ci trattava male e non voleva saperne del nostro amore, a quel padre che non è mai stato presente, quella madre che non ha avuto tempo da dedicarci perché troppo indaffarata nelle faccende domestiche o nel lavoro; quegli inutili drammi vissuti in famiglia che sembravano così grandi da non potercene liberare: li abbiamo vissuti, passati, apparentemente superati. Il passato è andato ma talvolta non lo è del tutto, ancora qualcosa cova sotto la cenere affinché venga fuori ad essere risolta completamente. E’ lava che scorre sotto un vulcano addormentato e che aspetta di poter fuoriuscire dai sotterranei. Le figure genitoriali e parentali, amicali, sono state molto importanti per noi al punto che le abbiamo quasi idealizzate facendone un idolo, la nostra massima aspirazione, magari proprio quelle nelle quali ci rispecchiavamo di più, o meglio le nostre aspirazioni nascoste. Spesso abbiamo aspirato all’amico che aveva tutto quel che non potevamo avere perché non avevamo le possibilità economiche. Abbiamo imparato a desiderare quel che non abbiamo potuto avere mentre avremmo desiderato averlo perché immaginavamo un bambino dovesse avere tutte queste cose: quale bambino immaginerebbe di poter non ricevere un regalo dopo averlo desiderato? Qual’è il vero significato del no, e cosa sta dietro a questa negazione? I bambini chiedono ed hanno questo desiderio, un “desiderio” che se insoddisfatto rimane dentro ed insoddisfatto sarà l’adulto che carica di peso le sue mancanze, quelle stesse che invece andrebbero riempite, una volte per tutte. Sono tracce di convinzioni e credenze che affondano nei pensieri più intimi che nessuno può sapere, immaginando che nessuno possa saperli, perché la mente umana funziona un pò in questo modo: impariamo a “difenderci” dal prossimo, iniziando a trattenere il segreto della mancanza per paura dell’incomprensione altrui e sentendoci minimizzati in questo guardando al prossimo “vicino” o sentito così vicino a noi per empatia desiderata alla soluzione, possibile, quasi non pensando che questa stessa è la causa dalla quale si diramano tutte le nostre azioni tese ad arginare la paura che impedisce la massima espressione. Sono tentativi di “aggirare” le paure che tendiamo a proiettare sull’altro, dandogli tutta la responsabilità e scansando noi, per evitamento, da possibili conseguenze disastrose. Avviene con il capoufficio, con il collega, con l’amico, il familiare.
Il nostro mondo interiore spesso messo a dura prova dalle nostre stesse emozioni, pervaso da un profondo senso di sgomento, terrore, panico dovuto all’impossibilità di navigare nel nostro stesso mare emozionale. La non azione non ci aiuta e rimaniamo bloccati dentro, immobilizzati in quella palude dove le acque non permettono alcun movimento.
Ma cosa possiamo fare per uscirne?
Fuori dalla palude c’è un oceano che non riusciamo a vedere, perché il dolore impedisce ogni movimento, anche il più piccolo che possa guidarci verso la salvezza. Il nostro intento nell’andare oltre richiede un grande atto di coraggio: affrontare se stessi, quelle stesse paure che da tempo ci impediscono di spiccare il volo verso la libertà, liberandoci da quelle stesse che tarpavano le ali. I nostri sogni, magari “fermati” da quelle imposizioni interiori, rigidità fatta di quattro sbarre (il carcere), apparenti, che non ci davano la possibilità di andare al di là dei nostri pensieri. Sono quindi i pensieri limitanti del passato che non permettono questo volo?
Si tratta di un senso di vuoto, profondo, che nessuno può immaginare perché non può provare, se non per vicinanza empatica: questo può avvenire incontrando persone simili per esperienza a noi, avendo vissuto le nostre stesse ferite, avendole re-interpretate in una diversa maniera. Scopriamo così di non essere soli perché qualcun’altro ha vissuto qualcosa di simile ed è magari riuscito ad uscirne, a modo suo, con i suoi mezzi d’espressione, le sue potenzialità (quelle nascose venute alla luce). Quindi comprendiamo anche l’altro essere noi stessi, il nostro prolungamento, l’essenziale che può aiutarci a sperimentare la sofferenza vivendola in un modo diverso, uscirne.
Sì, adesso sappiamo come uscirne. Possiamo prendere coscienza che nel problema stesso c’è la soluzione che può portarci fuori da quello che avvertivamo come un precipizio e che immaginavamo si nascondesse, da qualche parte, dentro l’altro che continuavamo a guardare, perché forse migliore di noi sotto l’aspetto di mancanza. Un precipizio dal quale non avevamo il coraggio di saltare buttandoci a capofitto e che avrebbe rappresentato la soluzione all’eterna domanda: mi butto o non mi butto? Non buttarci ci avrebbe riportato inevitabilmente a quel passato che desideravamo dimenticare, scordandoci per sempre di quelle ferite vissute tremendamente quasi tragicamente durante la nostra infanzia, senza sapere che sarebbero poi state in futuro i nostri peggiori scogli, da sorpassare per poter Vivere.
Assumersi la responsabilità di queste mancanze è la più bella forma d’aiuto verso se stessi ed un regalo, il più grande che possiamo farci.
L’altro non c’è, non ci sono giustificazioni che possano darci soddisfazione se non momentanea nel guardarlo tirando indietro la nostra persona e quelle mancanze che vanno riempite. Una debolezza che è una mancanza, questioni irrisolte delle quali dobbiamo farci carico perché nessuno potrà farlo al posto nostro. Ci spetta, come merito per la Vera Felicità, quella che abbiamo sempre desiderato per noi e che nessuno avrebbe mai potuto darci, nessuna delle persone attorno con le persone che pensavamo essere in “simbiosi” fino ad oggi (cit. il bambino e la madre): non potrà il partner sul quale riponevamo la possibilità di regalarci l’amore mai avuto, ne gli amici che potranno soltanto donarci qualche parola di conforto, per aiutarci ad andare avanti, sul nostro sentiero che non è quello di nessun altro.
Daniele Fronteddu