Giovedì sera alla Feltrinelli di via Paoli, a Cagliari, è stato presentato da Giacomo Serreli il libro “Sardegna, Jazz e dintorni” scritto a due mani da Simone Cavagnino, giornalista e direttore di Unica Radio, e Claudio Loi, giornalista e scrittore.
Una collaborazione che parte da una bella amicizia nata tra i due, uniti dalla passione per il Jazz. Ed è stato proprio grazie all’affascinante genere musicale che nel dicembre 2015 ha preso il via il progetto del libro.
La proposta iniziale di Claudio Loi prevedeva una raccolta delle più importanti interviste realizzate da Simone Cavagnino nel corso degli anni, ma quest’ultimo ha voluto spostare il focus sugli artisti sardi che in modi, stili e ritmi differenti creano musica.
Si parte con grandi nomi di jazzisti sardi: da Paolo Fresu a Paolo Carrus per arrivare a Rossella Faa con il suo “Jazz alla campidanese” e a Pinuccio Sciola, artista geniale di San Sperate che riuscì a creare musica con delle sculture di pietra, scomparso due anni fa, di cui si sente la mancanza.
“Nella mia vita ho viaggiato tanto e sono sempre stato convinto che si debba andare per il mondo senza inibizioni e senza presunzioni. Se uno eccede nell”uno o nell’altro aspetto, è già fuori strada. Quello che non sai cerca di impararlo, quello che sai proponilo e scambialo. Confrontarsi è molto importante. Io non sono Sciola perché sono sardo, io sono nato in Sardegna, una terra che non deve essere necessariamente migliore delle altre. È una terra che ha indubbiamente caratteristiche diverse, e abbiamo patrimoni che non siamo capaci di valorizzare. […] Un’onda che sbatte su uno scoglio sardo sbatterà su uno scoglio situato dall’altra parte del pianeta. L’insularità è un valore immenso che ci dà un’identità specifica. Molti invece vivono l’insularità come una condanna. Ma chi vuole viaggiare può spostarsi e andare oramai dove vuole. Io addirittura obbligherei i giovani a viaggiare per conoscere il mondo, senza inibizioni e senza presunzioni.” [Pinuccio Sciola – Sardegna, Jazz e dintorni]
Si parla di tantissimi artisti anche stranieri, passati nella nostra isola, primo fra tutti Peter Waters, pianista australiano che ha ottenuto una cattedra al Conservatorio Pierluigi Da Palestrina di Cagliari dal 2004 al 2009.
Simone: “Peter, che cosa fai tu, australiano, qui, mentre tutti vogliono emigrare in Australia?”
Peter: “Ma, carissimo mio, vedi, la Sardegna è esattamente uguale all’Australia, ma senza squali…”
[Tratto dall’intervista di Simone Cavagnino a Peter Waters]
Flavio Secchi sull’insularità asserisce: “Esiste un blues alla sarda? Io credo di sì. Come esiste un cantautorato sardo che non necessariamente parla di problemi legati al territorio sardo o lo fa in limba. È che lo siamo, sardi. E mi piace pensare che si senta, in un fraseggio jazzistico come in un beat elettronico.”
La presentazione è stata una piacevole chiacchierata tra amici, tutti con un enorme vissuto artistico da cui si può soltanto restare ammaliati per competenza, umiltà e bravura.
Il corposo libro di Cavagnino e Loi è diviso in cinque argomenti: la tradizione e il jazz – visioni di un mondo che cambia; il mondo ci guarda (e ci ascolta); onda su onda – jazzisti sardi intorno al mondo; quelli che restano; il nuovo che avanza e altre storie.
Mauro Mulas per esempio è un valido musicista che approfondisce e studia differenti stili e nel libro è inserito tra coloro che restano. Sull’insularità dichiara: “Non ho mai pensato di andare via dalla mia isola. Questa è casa mia, la sento come casa mia, ci sto bene e faccio qui il mio lavoro.”
Nell’ultima parte del libro invece, dedicata al nuovo che avanza, compaiono tra i tanti Claudia Aru e Stefano Guzzetti. Claudia Aru canta in lingua sarda e ha portato la nostra insularità e la nostra musica sino in Giappone. E nel libro dichiara: “essere un compasso è sempre stato il mio fine: una gamba ferma e l’altra in perenne movimento. La Catalogna è stata fondamentale soprattutto per la scelta di scrivere e cantare in sardo. […] Vivere il senso identitario catalano mi ha dato la motivazione e la voglia di imparare la lingua che non sapevo: la mia. Quindi ho iniziato a studiare e cantare in sardo.”
Stefano Guzzetti viaggia musicalmente tra due generi, l’elettronica e la classica strumentale. Tra le tantissime collaborazioni importanti (per esempio con lo scrittore/fumettista di graphic novel, nonché direttore di Linus Igort), ha avuto l’onore di scrivere musica per il lancio del libro di Haruki Murakami, “L’incolore Tazaki Tzukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”. Sull’insularità afferma: “È così che ho capito che l’insularità è un limite e allo stesso tempo un vantaggio: guardare fuori dall’isola mi ha aiutato a delineare una strada che sto tuttora percorrendo e che è la mia carriera di musicista. Quindi rimango in Sardegna ma, senza essere sprezzante, non faccio della sardità la mia ragione d’esistenza, né creativa, né esistenziale. Sono contento di essere sardo, mia madre è di Samassi, mio padre era di Cagliari, ma questo non vuol dire che io debba onorare costantemente la mia appartenenza a quest’isola in tutto quello che faccio, quella è implicita. Reputo la mia musica un linguaggio di più ampio spettro, sto felicemente qui, la qualità della vita e del cibo in Sardegna nel resto del mondo te la sogni, ma essendo un’isola piccola e con occasioni limitate, ho dovuto per forza cercare altrove”.
Alla fine cos’è questo libro? È un viaggio in Sardegna attraverso le note del Jazz (ma non solo) in cui sono raccolte testimonianze varie e disparate di un’arte, di un ritmo che tocca nel profondo l’animo e le origini dell’artista quanto dell’estimatore.
E su cosa sia il jazz mi affido alle parole di Fabrizio Poggi, tratte dal libro “Angeli perduti del Mississippi”: “Sull’origine di questa parola si potrebbe scrivere un intero trattato. Le teorie sulla sua genesi sono tante ed estremamente variegate. Risulta però piuttosto credibile la tesi di alcuni studiosi che collocano l’origine del termine in Africa. Per le tribù bantu jaja è sinonimo di ballo. Per quelle Wolof, invece, yees significava vigore, energia ed effervescenza mentre per quelle Kikongo dinza, poi trasformatosi in jizz, definisce l’orgasmo maschile. […]A fine Ottocento le brass band afroamericane di New Orleans, la cui musica selvaggia, orgiastica, disinibita e sensuale era un irresistibile invito al ballo, venivano chiamate dai benpensanti bianchi dirty bands oppure jass bans. Quelli erano tempi in cui tra blues e jazz non c’era molta differenza.”
Arrigo Polillo nel libro “Jazz” scrive: “Che cosa è il jazz, dunque? Al tentativo di definirlo in senso tecnico-formale e in senso storico si sono dedicati in molti fino ad oggi, ma non si può dire che abbiano avuto successo, proprio per la mutevolezza del jazz stesso. Le definizioni che meglio hanno resistito alla prova del tempo sono quelle che hanno cercato di individuare, fra i caratteri che hanno via via contraddistinto le diverse forme di jazz, quelli costanti, e che si sono quindi limitate a poche enunciazioni. Per Marshall Stearns, per esempio, il jazz è “una musica americana semi-improvvisata caratterizzata da un’immediatezza di comunicazione, un’espressività tipica del libero uso della voce umana, e da un complesso, fluente ritmo; è il risultato di una commistione attuata negli Stati Uniti nel corso di tre secoli delle tradizioni musicali dell’Europa e dell’Africa occidentale; e i suoi ingredienti predominanti sono un’armonia di origine europea, una melodia euro-africana e un ritmo africano”. […] La verità è che per jazz altro non s’intende, oggi, che la migliore espressione musicale – in continua, rapidissima trasformazione – di una certa cultura: quella dei negri che vivono nelle grandi città degli Stati Uniti, ai quali fanno corona moltissimi simpatizzanti (nel senso etimologico del termine) e in primo luogo coloro che la classe dominante, bianca, l’Establishment, ha ad essi, in qualche misura, assimilato o avvicinato. Si allude soprattutto agli ebrei – in gran parte originari dell’Europa orientale – e agli italo-americani: due gruppi etnici che hanno condiviso coi negri, per un certo periodo almeno, la sorte dell’emarginazione nei ghetti, dai confini più o meno rigorosi e qualche volta di natura soltanto psicologica.”
Il Jazz è un’arte speciale con forti proprietà rilassanti, poetiche ed evocative. Come ha detto un ragazzo romano, di notte, mentre ascoltava alcuni artisti di strada che suonavano jazz sopra Ponte Sisto: “il Jazz non è per tutti, non tutti lo capiscono. I ragazzini ascoltano la radio, i vecchi il Jazz. Occorre avere un vissuto per poterlo apprezzare perché è una musica priva di parole. Tu che ascolti ci metti dentro le tue parole, crei sopra la musica il testo che vuoi”.
Alessandra Liscia