La storia è degna del migliore dei gialli, con tanto di truffa, e vede per protagonisti niente meno che un sovrano e un abile funzionario dello Stato. Racconta della vendita di 330 falsi bronzetti a Carlo Alberto di Savoia da parte del Direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara. Parte di quella collezione, 70, è in mostra da qualche giorno nei Musei Reali di Torino, ma la parte più consistente, 150, e da venerdì 6 aprile sarà in esposizione a Oristano, all’Antiquarium arborense.
Stamattina la presentazione in anteprima ai giornalisti da parte del Sindaco Andrea Lutzu, dell’Assessore alla Cultura Massimiliano Sanna e del Curatore dell’Antiquarium arborense Raimondo Zucca.
Il Museo di Oristano, per celebrare i suoi ottant’anni (è nato nel 1938), grazie alla sinergia tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari (Soprintendente Fausto Martino) e i Musei Reali di Torino (Direttrice Enrica Pagella), presenta la storia che continua quella, aperta il 22 marzo scorso nelle sale del Museo di Antichità di Torino (Direttrice Gabriella Pantò), su Carlo Alberto Archeologo in Sardegna.
Il Re Carlo Alberto fu effettivamente archeologo in Sardegna, effettuando diversi scavi archeologici, al nuraghe Santu Antine di Torralba e a Turris Libisonis nel 1829, a Nora e Tharros nel 1841 e a Olbia nel 1843, con la partecipazione speciale in questi ultimi tre scavi del Direttore del Museo di Cagliari Gaetano Cara.
Gaetano Cara, classe 1803, cagliaritano, fu il vero padrone dei musei cagliaritani (zoologico, mineralogico, archeologico) dell’Università cagliaritana. Legato da amicizia strettissima con Alberto Lamarmora, rivelatore, con i propri studi, della Sardegna al continente europeo, ed ai coetanei Giovanni Spano, ploaghese, ed Efisio Luigi Tocco cagliaritano, entrambi archeologi.
I tre archeologi (Cara, Spano e Tocco) scavarono insieme in numerosi luoghi della Sardegna, ma per le impellenti necessità di carriera e di danaro iniziarono anche altre attività: Gaetano Cara si occupò di due affari lucrosi: lo scavo archeologico a Tharros e la vendita di quattro collezioni tharrensi al Louvre, al British Museum, all’asta di Christie’s a Londra ed alla Provincia di Cagliari (tra il 1856 e il 1863) e la falsificazione di circa 330 idoli sardo-fenici, venduti al Museo di Cagliari, alla collezione reale di Caro Alberto e al Museo di Lione, da cui ricavò il corrispettivo di Euro 823.087, 88.
I due sodali di Cara, Tocco e Spano, non denunziarono i malaffari, se non a partire dal 1849. Tocco mirava a rivestire la carica di Commissario delle Antichità in Sardegna. Dal 1876 Spano voleva liquidare il vecchissimo direttore museale Cara per fare posto al giovane archeologo Vincenzo Crespi, formato dallo stesso Giovanni Spano.
Da qui il sospetto di una tolleranza (o di una partecipazione diretta) sull’affaire degli idoli sardo-fenici da parte degli archeologi Tocco e Spano.
Il fatto è che compromesso due volte in questo affare era lo stesso Alberto Lamarmora che sin dal 1830 e poi nel 1840 (con il Voyage en Sardaigne) e nel 1853 (con l’edizione del Taccuino del notaio Gilj delle Carte d’Arborea che era accompagnato da disegni (falsi) degli idoli sardo-fenici) aveva diffuso in tutta l’Europa scientifica i mirabolanti idoli sardo-fenici.
Fu Ettore Pais, nuovo direttore del Museo di Cagliari, nel 1883 a mettere fine allo scandalo di questi idoli falsi, che costituivano “il migliore ornamento del Museo cagliaritano”, relegandoli in una cassa, col numero d’inventario 6194, i “turpi” idoli “falsi e bugiardi”.
Nel 1974 fu Giovanni Lilliu, il più grande archeologo della Sardegna, a studiare gli idoli falsi e il loro contesto storico, auspicando una esposizione che spiegasse il significato culturale dell’indegno affaire degli idoli sardi.
Sta di fatto che il ricchissimo direttore del Museo di Cagliari, Cara, riuscì nell’intento di gabbare un Re (Carlo Alberto), il cui figlio Vittorio Emanuele II gli concesse il cavalierato dei SS. Maurizio e Lazzaro, ed una infinità di studiosi e di archeologi europei, tra cui il danese Friedrich Münter, i francesi Charles Lenormant e Ernest Renan, il celebre autore della Mission en Phènicie, il prussiano Eduard Gerhard, fondatore dell’Instituto di corrispondenza archeologica Germanico di Roma, il primo ad attribuire la gran parte dei vasi figurati in Etruria alle officine ateniesi.
Non è un caso che la truffa degli idoli sardo-fenici sia segnalata in tutti i trattati di falsificazione delle antichità, come quello di Otto Kurz, Falsi e falsari, Vicenza 1996, dove si ricorda che un idolo sardo-fenicio a tre teste, presente nell’esposizione oristanese, ingannò nel 1948 un professore di indologia dell’Università di Bonn, che lo considerò autentico.
Gli idoli sardo-fenici vennero distinti dai bronzi nuragici autentici (che rappresentano guerrieri, principi, sacerdotesse, popolani, animali, manufatti, modelli di nuraghi e di navicelle, dell’universo sardo del IX-VIII secolo a. C.) come rappresentazioni fantastiche di divinità sarde ispirate dai Fenici, che raggiunsero le coste della Sardegna intorno alla seconda metà del IX sec. a. C. I falsari crearono diverse categorie di idoli, che raccontavano un universo di dèi antropomorfi e antropozoomorfi: dèi-uomini o dèi mostruosi che mescolavano tratti umani e tratti bestiali. Accanto dunque agli idoli “di ispirazione orientale” abbiamo una seconda grande categoria di idoli-diavoli, su cui si soffermò puntualmente Giovanni Lilliu nel 1974: si tratta di rappresentazioni orripilanti di diavoli spesso asessuati, con corna diaboliche, coda e forcone a tre o due rebbi, che derivano dall’immaginario medievale del diavolo, talora con la pelle da sauro, talaltra con una seconda faccia sul ventre che conosce precise ascendenze nella rappresentazione di diavoli medievali.